Morire soli o morire in solitudine

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Breve premessa #
Quest’articolo è una riscrittura di una mail inviata alla redazione de La Stampa dopo l’uscita della notizia della morte di una persona conosciuta grazie al mio lavoro di operatore sociale. In seguito alla mia protesta sul messaggio un po’ fuorviante che veniva veicolato nel breve articolo, il direttore della cronaca di Torino mi ha contattato, rispondendo alla mie critiche, chiedendomi di approfondire il discorso e offrendo la possibilità di pubblicare quello che avevo da scrivere. Probabilmente complice agosto, dopo avergli mandato quello che leggerete qui, non ho più avuto riscontri.
Giovedì 31 luglio, neanche il tempo di accendere il computer e vedere la posta, un collega mi chiede: “Hai letto la mail?” “No, perché?” “Sai la notizia del signore morto a Barriera?” “Eh.” “Era uno di Cavagnolo”. “Ah. Ma chi?”
Cavagnolo è un paese a circa 50km da Torino dove Synergica, la cooperativa per cui lavoro, gestiva – il progetto è in chiusura – una casa dedicata a uomini senza dimora in collaborazione con il servizio adulti in difficoltà del Comune di Torino. Il progetto prevedeva un alloggio condiviso dove le persone potessero avere il tempo di costruirsi una nuova quotidianità abitativa e, contemporaneamente, avere nuove possibilità di formazione attraverso la cura dell’orto e delle api. Giuseppe, una volta finita la sua permanenza, aveva scelto di continuare a dedicarsi alle api insieme all’apicoltore che collabora con la cooperativa.
Proprio lui la sera del 30 luglio è andato a citofonargli perché non lo sentiva da giorni e i vicini gli hanno raccontato quello che era successo al mattino, con Vigili del Fuoco, polizia e Croce Rossa, e che, bene o male, si può leggere sui giornali.
L’articolo online uscito su La Stampa Torino dedicato alla notizia titola Morto in casa da una settimana, una storia di solitudine a Barriera di Milano, ma, a dispetto delle apparenze, Giuseppe non era il protagonista di una storia di solitudine. Lo dimostra il fatto che nelle ore e nei giorni seguenti alla mail giunta anche a me, ne sono arrivate altre con ricordi personali e foto. Dopo il periodo nella casa a Cavagnolo dove gli ospiti potevano rimanere fino a due anni, per qualche mese Giuseppe aveva lavorato come giardiniere per la cooperativa e poi era stato preso in carico da un altro ente che l’aveva aiutato a trovare casa.
Personalmente trovo che quel “storia di solitudine” suona sbagliato perché dà una percezione della realtà che non corrisponde totalmente al vero. In più, chi conosce Torino sa che un episodio del genere può stupire se succede ovunque tranne quando capita a Barriera di Milano, il quartiere che nessuna città vorrebbe avere. Mettere insieme la “solitudine” e “Barriera di Milano” forma un cliché potente. Detto questo, Giuseppe probabilmente non aveva veramente nessuno, ma era seguito da persone, anche dei servizi sociali della Città di Torino, che gli volevano bene e, nonostante seri problemi di salute, si stava ritagliando di nuovo una vita su misura grazie all’aiuto che stava ricevendo. In quella casa era entrato da poco ed era contento.
Se morire da soli è la prospettiva che ci accompagna, morire in solitudine disegna un’ombra sul passato che induce a pensare un contesto di vita povero, inesistenti relazioni, prospettive e sogni. Meglio allora pensare che la solitudine non sia una condizione definitiva perché influisce sull’idea che ci facciamo della vita delle persone. Tuttavia è comprensibile pensare che una persona trovata morta dopo una settimana senza che nessuno reclamasse la sua presenza possa sembrare in solitudine, ma per quanto una vita possa essere scalcagnata, dobbiamo ricordarci che le apparenze possono ingannare. Forse, per capire meglio la storia di Giuseppe, dovremmo iniziare ad avere meno paura della solitudine e considerarla in maniera diversa, come una condizione umana che può capitare in alcuni momenti e che cambia in funzione dei periodi di vita. In questo modo la sua definizione diventerebbe uno stato precario e temporaneo e non riusciremmo più a pensare che una storia di solitudine possa valere per una vita intera.
La vicenda di Giuseppe e della sua morte devono far emergere forte la pretesa di aspettarsi qualcosa di più dai media, tanto di più, anche se è difficile da quantificare e definire. Forse è necessaria più cautela nell’uso delle parole, altrimenti ogni storia diventa un’occasione persa e allora è meglio tacere piuttosto che raccontare ogni vita (e ogni morte) così, lasciando intendere che morire da soli sia l’equivalente di morire in solitudine.
La stessa cura messa dagli operatori e operatrici per accompagnare Giuseppe in questi anni nel suo percorso, la possono spendere i giornalisti e le giornaliste per raccontare una storia, con l’auspicio che entrambi i lavori possano avere il tempo e lo stipendio adeguato per esplorare ed esaurire un percorso o una notizia senza fermarsi alle apparenze, andando oltre il luogo comune.