La maledizione della noce moscata - Dispaccio #8

Indice dei contenuti
Introduzione #
Ricevuto a gennaio in occasione del mio compleanno, finito di leggere a maggio 2025 accompagnandomi anche in Sardegna e ad Amburgo.
Il sottotitolo Parabole per un pianeta in crisi spiega abbastanza bene la forma di questo libro un po’ confuso, come probabilmente sono anche altri testi scritti in epoca di pandemia e lockdown a causa del Covid-19. Sicuramente denso, per alcuni tratti assomiglia a un saggio storico sul colonialismo predatorio europeo, nel Sud-est asiatico a causa della noce moscata e dei chiodi di garofano nelle isole Banda e Molucche - da qui il titolo - e nel continente americano. Olandesi, spagnoli, inglesi, francesi con l’unico scopo di predare senza chiedere, prendere come se fosse permesso senza porsi limiti. Il paradosso si evidenzia quando si capisce che nello stesso momento storico gli europei ragionavano sull’Utopia da un parte e dall’altra sterminavano popoli che consideravano inferiori sulla base di presupposti indubbiamente razzisti.
In altri punti, più marginali, il diario da recluso a New York regala spunti di approfondimento e di pensiero, come i ragionamenti sul movimento Black Lives Matter e i tentativi di decolonizzazione del pensiero a partire dall’abbattimento di statue erette in onore di conquistatori e sterminatori.
In ultimo una parte interessante prova a dar ragione a quei popoli che finora sono stati nella migliore delle ipotesi derisi, nella peggiore decimati e ridotti a pochi rappresentanti, se non pochissimi, che però, nel rapporto con la Terra e con il non umano, hanno da sempre trovato un equilibrio e la giusta interpretazione. Si parla di sciamanesimo, di lotte per i territori e soprattutto di come si dovrebbe considerare quello che ci circonda: come se fosse un parente, un lontano antenato. Con questa chiave di lettura, che non è soltanto formale, ma sostanziale, si offre consistenza ai diritti della natura rendendo così possibili alcune sentenze storiche che danno personalità giuridica a montagne in Nuova Zelanda e a foreste in America Latina.
Nel mondo occidentale sembra notevole rimarcare come, all’interno del libro, San Francesco d’Assisi sia considerato praticamente uno sciamano e che l’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco sia la sintesi perfetta del metodo per affrontare la crisi planetaria perché esprime con estrema chiarezza la necessità di tenere insieme la questione ambientale con quella sociale, parlando di ecologia e giustizia.
Quest’ultimo aspetto è la parte che più mi interessa in questo periodo e dalla vasta bibliografia due sono i volumi che adesso vorrei frequentare: Chthulucene: sopravvivere su un pianeta infetto di Donna Haraway (NERO) e La caduta del cielo di Bruce Albert e Davi Kopenawa (Nottempo), sciamano yanomani dell’Amazzonia brasiliana.
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Proseguendo nella sua argomentazione, Deloria contrappone i sistemi di pensiero che traggono orientamento dagli spazi terrestri a quelli che privilegiano il tempo. Per i secondi la domanda cruciale in merito a qualunque evento è «quando è successo?». Per i primi invece è «dove è successo?». La prima domanda configura le possibili risposte collocando l’evento in un particolare periodo storico. La seconda configura le risposte in modo del tutto diverso, poiché attribuisce un certo grado di intenzionalità al paesaggio stesso a tutto ciò che contiene, inclusa l’intera gamma degli esseri non umani. Ne consegue, secondo Deloria, che «le tribù [indiane] si confrontano e interagiscono con un particolare territorio e con tutte le sue forme di vita. L’obiettivo o ruolo delle religioni tribali è quello di connettere la comunità umana con ogni minima sfaccettatura della creazione così come l’ha sperimentata.»
Per molti gruppi indigeni, i paesaggi restano oggi fervidamente vivi come sempre stati. «Per gli uomini e le donne apache dell’Arizzona occidentale» scrve l’antropolo Keith Basso «il passato è incastonato nei lineamenti della terra, in canyon e laghi, montagne e ruscelli, rocce e praterie, che insieme dotano i loro territori di una molteplicità di significati che pervadono la loro esistenza dando forma al loro modo di pensare». Storie del passato costruite intorno a luoghi familiari informano ogni aspetto della vita apache. Tramite queste storie, gli elementi del paesaggio parlano alla gente con la stessa chiarezza delle voci umane che gli storici portano alla luce da fonti documentali.
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Ciò è particolarmente evidente nel caso della caccia alla streghe, che demonizzò, letteralmente, un gran numero di donne europee perlopiù povere, ricorrendo a traslati frutto della percezione colonialista degli amerindi come adoratori del diavolo. Le immagini europee di streghe che arrostiscono membra umane sulla graticola, per esempio, derivavano direttamente dalle rappresentazioni di presunti rituali cannibaleschi dei tupinamba, una tribù caraibica nella cui cultura gstronomica la graticola era un elemento centrale.
Il sovrapporsi temporale dei roghi di streghe in Europa e delle «grandi morìe» nelle Americhe non fu una coincidenza; si è detto, con fondate ragioni, che la coscienza collettiva europea dell’epoca «si sentiva circondata da cristiani eretici, ebrei stranieri e indiani d’America rei di delitti innominabili, che comportavano l’uso di carne e sangue umani». Tali processi paralleli di violenza, fisica e intelletuale, erano funzionali all’emergere di una nuova economia basata sul prelevamento di risorse da una Terra desacralizzata, inanimata.
Pagina 66-67 #
I conflitti coloniali d’insediamento erano completamente diversi. I popoli nativi dovevano affrontare uno stato di guerra permanente (o «eterno») che coinvolgeva una molteplicità di esseri ed entità non umani: agenti patogeni, fiumi, foreste, piante e animali, tutti svolgevano un ruolo nella lotta.
Le implicazioni non umane di tali conflitti sono tali conflitti sono talmente estese che mettono in crisi le consuete categorie di «Storia» e «politica», entrambe considerate, in senso moderno, come campi d’intervento esclusivamente umani. La netta distinzione fra ciò che è naturale e ciò che è umano, così centrale nei sistemi di pensiero occidentale, non consente a esseri non umani di figurare come protagonisti della Storia e della polica; al massimo possono essere trattati come elementi inerti in particolari contesti ecologici.
Pagina 74-75 #
Nessuno ha saputo sintettizzare le differenze fra la concezione europea e quella indiana del vivere dei beni della terra più efficacemente del capo oglala lakota Orso in Piedi: «A noi le grandi pianure spaziose, le magnifiche colline ondulate e i fiumi che scorrevano in un groviglio di vegetazione non apparivano selvaggi. Solo per l’uomo bianco la Natura era una «landa selvaggia», e solo per lui la terra era «infestata» da animali «selvatici» e popoli «primitivi». Per noi era mansueta. La Terra era prodiga ed eravamo circondati dai doni del Grande Mistero».
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Ma è davvero così?
Oggi, guardando le inondazioni, gli incendi e le siccità che affliggono alcune delle aree più intensamente terraformate del pianeta - Florida, California, il Midwest negli Stati Uniti, L’Australia sudorientale - è difficile non chiedersi se tali paesaggi non abbiano deciso di scrollarsi di dosso le forme loro imposte dai coloni europei.
Assistendo ai disastri ambientali e biologici che oggi avvengono ovunque sulla Terra, diventa sempre più arduo pensare che il pianeta sia un corpo inerte che esiste al solo scopo di fornire risorse agli umani. Le reazioni della Terra, invece, rimandano sempre più al pianeta immaginario al quale lo scrittore di fantascienza Stanislaw Lem dedicò il suo geniale romanzo Solaris: quando provocato dagli umani, Solaris contrattacca in modi del tutto inaspettati e perturbanti.
Appare quindi sempre più chiaro che la Terra può agire, e lo fa, solo che le sue azioni si svolgono su una scala temporale in cui l’arco di quattrocento anni fra il 1621 e il 2021 non è che un breve istante, simile a quello che separa lo scivolare di un masso su un pendio montano dalla frana che segue. Da tale prospettiva i cambiamenti climatici della nostra era non sono che la risposta della Terra a quattro secoli di terraformazione, durante i quali il progetto, nella sua veste neoliberale, è stato universalmente adottato dalle élite globali.
Pagina 108-109 #
Kimmerer racconta anche di una verifica da lei condotta in un corso di Ecologia generale, con un gruppo di studenti dell’ultimo anno che avevano appreso moltissimo su inquinamento, cambiamento climatico e impoverimento degli habitat. Molti di loro avevano perfino optato per una carriera nell’ambito della protezione ambientale. Eppure, interpellati su esempi positivi di interazione fra le persone e il territorio, nessuno era riuscito a indicarne nemmeno uno.
«Ero stupefatta» scrive Kimmerer. «Possibile che dopo vent’anni di studio non riescano a pensare a una sola relazione positiva tra gli esseri umani e l’ambiente? Forse gli esempi negativi che vedono ogni giorno - aree industriali dismesse, allevamenti intensivi, espansione urbana - hanno distrutto la loro capacità di trovare del buono tra l’umanità e la terra? Con l’impoverimento del territorio, si restringe anche il loro campo visivo».
Riflettendoci, Kimmerer osserva: «Come possiamo cominciare a muoverci verso una sostenibilità ecologica e culturale, se non riusciamo neppure a immaginare il sentiero da percorrere?» E aggiunge: «La nostra relazione con la terra non può risanarsi se prima non ascoltiamo le sue storie. Ma chi le racconterà?»
Pagina 136-137 #
«La militarizzazione» si è detto «è l’attività umana che più contribuisce alla devastazione ambientale». Tuttavia l’argomento viene così poco approfondito che, secondo i tre principali studiosi del settore, «nelle scienze sociali la ricerca sull’impatto ambientale del militarismo è inesistente». Fra gli studiosi che se ne occupano, parecchi sono legati alla cosidetta scuola sociologica del treadmill of destruction («routine della distruzione»). Una delle ben fondate conclusioni a cui è giunta questa scuola è che il «complesso militare-industriale», pur essendo strettamente legato all’economia, non vi è affatto subordinato, perché impone suoi imperativi specifici e segue una sua specifica logica. In effetti le forze armate non sono solo uno dei principali motori dell’economia, ma anche il guscio protettivo che consente al capitalismo di funzionare.
Già nel 1992, la Union of Concerned Scientists avvertiva che l’umanità si trovava di fronte a una drastica scelta: o spendere le proprie risorse per la guerra e la violenza o prevenire catastrofici disastri ambientali. Il rapporto venne firmato da 1700 scienziati, fra cui la maggioranza dei premi Nobel in campo scientifico. Nel 2017 l’ammonimento è stato reiterato, questa volta con le firme di 15000 scienziati, e sosteneva che le condizioni mondiali erano ulteriormente peggiorate.
Il primo rapporto della Ucs suscitò grande clamore; il secondo è passato quasi inosservato.
Pagine 216-217 #
Recenti ricerche biologiche hanno dimostrato che molte specie non si evolvono singolarmente: i batteri sono essenziali per a sopravvivenza d ogni specie animale, umani compresi. «Sempre di più» secondo un gruppo di biologi «la simbiosi appare la “regola” e non l’eccezione […]. La natura potrebbe selezionare “relazioni” più che individui o genomi».
Pagina 219 #
Perciò la vera domanda non è se i non umani siano in grado di comunicare o produrre significato, bensì quando e come un ristretto gruppo di umani sia arrivato a credere che altri esseri, compresa la maggioranza dei loro simili, siano incapaci di espressione e intenzionalità. Come sono riusciti a concepire e a far prevalere l’idea che i non umani siano muti, e privi di una mente?
Pagine 222-223 #
È dunque del tutto possibile che, lungi dall’essere un attributo esclusivamente umano, la facoltà narrativa sia la più animale delle facoltà umane, il prodotto di uno dei tratti che gli umani indiscutibilmente condividono con gli animali e con molti altri esseri: l’attaccamento a un luogo. Può darsi, allora, che il raccontare storie, lungi dal distinguere gli umani dagli animali, sia in realtà il più importante residuo della nostra un tempo selvatica identità. Ciò spiegherebbe perché le storie, più di ogni altra cosa, siano il territorio della vita immaginativa umana in cui i non umani avevano voce, e dove l’intenzionalità non umana era pienamente riconosciuta e persino celebrata. Fare questo balzo può essere difficile in altri, più prosaici, territori del pensiero, ma senza dubbio non era una forzatura nell’universo della narrazione, dove tutto è possibile.
Il ridursi delle possibilità di questo territorio, con la conseguente cancellazione delle voci non umane dalla letteratura «seria», ha contribuito non poco a creare quella cecità verso gli altri esseri che è un tratto così marcato della modernità ufficiale. Ne consegue che, se le voci non umane devono essere rimesse al posto che loro spetta, lo si dovrà fare, in primo luogo, mediante le storie.
È questo il grosso fardello che oggi pesa su scrittori, artisti, film-maker e chiunque altro sia coinvolto nel narrare storie: a noi spetta il compito di immaginare come restituire intenzionalità e voce ai non umani. Come in tutte le più importanti imprese artistiche della storia umana, è un compito insieme estetico e politico - e data l’enormità della crisi che affligge il pianeta, ha ora un’estrema urgenza morale.
Pagina 258-259 #
Ancor più marcatamente vitalisti sono i movimenti di resistenza dei nativi americani, che da lungo tempo si fondano su un’etica che pone in primo piano un istinto di protezione famigliare verso «tutti i nostri parenti», ossia l’intero spettro del non umano, inclusi fiumi, montagne, animali e spiriti della terra.
[…] Nella sua forza e semplicità, l’idea di proteggere «tutti i nostri parenti» potrebbe essere la chiave per creare ponti fra le persone in tutto il globo. Un importante segnale in questa direzione viene dalle molte significative vittorie legali ottenute negli ultimi tempi da popoli indigeni in varie parti del mondo, proprio partendo da basi vitaliste, ovvero sottolineando la sacralità di montagne, fiumi e foreste, e i legami di parentele che li uniscono agli umani. Per citare un unico esempio, nel 2012 i sarayaku, una minuscola popolazione quechua dell’Amazzonia ecuadoriana, ottennero una vittoria storica quando la Corte interamericana dei diritti umani stabilì che il governo dell’Ecuador aveva violato i loro diritti consentendo a una compagnia petrolifera di effettuare trivellazioni nel loro territorio senza prima consultarli. In quel processo, il punto di svolta si ebbe con la testimonianza del più importante sciamano dei sarayaku, il novantaduenne don Sabino Gualinga, che spiegò alla corte come gli esplosivi usati dai prospettori dell’azienda avessero allontanato gli esseri che tutelavano la foresta. Analogamente, nel 2017 una tribù maori ottenne una vittoria fondamentale quando al fiume Whanganui, nell’Isola del Nord in Nuova Zelanda, furono riconosciuti da un tribunale i diritti legali di un essere umano. In quell’occasione, il negoziatore capo della tribù dichiarò: «Il motivo per cui abbiamo adottato questo approccio è che consideriamo il fiume un antenato, e l’abbiamo sempre considerato tale».
Altri gruppi indigeni hanno ottenuto vittorie simili in Australia, Canada e India.
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A chiunque presti attenzione, soprattutto ai giovani, è perfettamente chiaro che il capitalismo estrattivista è ormai alla frutta, e che la sua fine è dovuta al venire meno dell’orizzonte stesso su cui si fonda la sua esistenza: il futuro. Quando il futuro diventa radicalmente incerto, nulla funziona più: assicurazioni, quote azionarie, credito, dividendi, perfino il denaro (che dopotutto è un insieme di cambiali che qualcuno deve riscuotere).