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Le dimensioni del possibile

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Quando l’essere umano non vede il molto piccolo e il molto grande, fatica a capirne l’essenza e le dinamiche.

Sempre più spesso i dibattiti contemporanei riguardo a questioni scientifiche arrivano anche al grande pubblico, uscendo dalla loro dimensione accademica e diventando argomenti di aspre battaglie culturali. Ciò comporta che gli aspetti meramente scientifici possano passare in secondo piano, lasciando spazio all’emersione, anche piuttosto violenta, di altri temi.

La crisi climatica, i vaccini, gli OGM sono tutte questioni piuttosto consolidate nel dibattito scientifico che, quando sono diventate argomento di discussione pubblica, hanno sollevato opinioni fortemente contrastanti e anche una serie di fenomeni culturali trasversali e opposti, genericamente collegati all’idea di complottismo. Nell’ultimo anno, con l’esplosione della pandemia da Covid-19, abbiamo tutti avuto un assaggio di questo fenomeno.

Alcune di queste posizioni, derubricate come disgrazie culturali (e forse lo sono anche), sembrerebbero superficialmente riconducibili a limiti individuali. Ma provando a porsi in maniera non pregiudiziale ci si accorge presto che il ruolo della dimensione, della scala, è centrale in esse e che il loro rapporto con il micro e il macro è un tassello fondamentale per comprenderne le logiche — e magari superarle definitivamente.

Macro #

Per esempio, il cinismo/ironia che avvolge i terrapiattisti sembra oggi difficile da scardinare, ma una struttura del cosmo basata su una Terra piatta ha radici lontane ed è stata, per quanto ne sappiamo, anche abbastanza longeva in alcune civiltà. Dopotutto non è altro che il frutto di una spiegazione piuttosto intuitiva di come potrebbe essere fatto il cosmo basandosi sull’osservazione dei fenomeni celesti a occhio nudo. Il punto centrale, dunque, non è legato tanto alla forma del pianeta Terra, quanto all’impossibilità di immaginare e descrivere la dimensione dell’universo che le sta intorno: alla sua cosmologia.

Quando Anassimandro di Mileto nel 600 a.C. circa, senza strumenti particolari, descrive a grandi linee l’universo come lo conosciamo oggi, sostanzialmente compie due atti rivoluzionari: riesce a dimostrare che la Terra galleggia e costruisce un’idea di cosmo che ancora oggi, con i debiti aggiornamenti (il sistema eliocentrico copernicano, la relatività e tante altre cose), ci portiamo appresso, con i pianeti che girano in tondo e tutto il resto.

In origine il significato del termine rivoluzione indicava proprio il moto circolare, ma, in senso più attuale e come usato qualche riga più in alto, indica un grande sovvertimento. Questo significato diverso deriva dall’enorme impatto che il titolo dell’opera De Revolutionibus Orbium Caelestium di Copernico ha avuto sulla nostra immagine del mondo e dell’universo: ha sconvolto tutto.

Anassimandro, come racconta Carlo Rovelli nel libro Che cos’è la scienza, “Vede la profondità del cielo […] Si passa da un mondo visto come l’interno di una scatola, a un mondo immerso in uno spazio esterno aperto […] Anassimandro, in un certo senso, inventa lo spazio aperto del cosmo.” E non c’è nulla di più impressionante dell’idea di uno spazio aperto, senza limiti.

Va da sé che premesso questo la questione non è più se la Terra sia piatta o sferica (per Anassimandro era addirittura cilindrica, una specie di disco), ma dove si trova: in un universo enorme, in espansione, difficile da immaginare e visualizzare e per di più governato da leggi difficilmente afferrabili (la teoria della relatività non è esattamente un concetto intuitivo) oppure all’interno di una cupola relativamente piccola, con disegnati sopra il Sole, le stelle e la Luna che si muovono tutti più o meno alla stessa distanza?

Quanto sono diverse dal punto di vista dimensionale le due posizioni e quale ci impressiona di più? Quanto è più facile cedere a una rappresentazione consolatoria, peraltro molto più vicina a quello che effettivamente ci sembra di vedere a occhio nudo?

Un discorso analogo riguarda il dibattito sulla crisi climatica. La fatica necessaria a comprendere la portata dei cambiamenti climatici è direttamente proporzionale alla scala stessa del fenomeno. Pensare di confortare sé stessi ogni anno rilevando situazioni meteorologiche bene o male cicliche, con le montagne che continuano ad imbiancarsi in inverno e le estati comunque calde, oltre a segnalare una certa confusione tra i concetti di meteo e clima, rafforza la tesi che il cambiamento climatico, citando Timothy Morton, è un oggetto troppo grande in termini spazio-temporali per poter essere visto o percepito in maniera diretta e dunque digerito dalle nostre menti con facilità. Si può visualizzarne una rappresentazione indiretta – il grafico delle temperature globali in aumento negli ultimi secoli, tipo quello di Ed Hawkins, le warming stripes – ma non si può osservare direttamente.

Senza vedere è difficile capire. Non a caso alcune importanti scoperte scientifiche portano con sé un corredo iconografico notevole che permette di comprenderle meglio nella loro interezza e complessità.

Un esempio riferito alla nostra idea di Terra potrebbe essere un qualunque planisfero, mentre un esempio recente è sicuramente legato alla grande eco mediatica che ha riscosso la prima immagine di buco nero.

In senso inverso, cioè verso il piccolo, il modello tridimensionale a doppia elica di Watson e Crick per spiegare la struttura del DNA rende bene l’idea di quanto sia importante confortare con immagini chiare fenomeni piuttosto complessi, tanto che per CRISPR/Cas9, sistema di editing genomico riconosciuto con il Nobel per la Chimica nel 2020 a Emmanuelle Charpentier e Jennifer Doudna, sono già in commercio, a prezzi abbastanza accessibili, modellini stampati in 3D on-demand.

Ma per creare delle immagini, perdonerete la tautologia affatto casuale, bisogna che prima venga fatto uno sforzo di immaginazione.
Guardando il Sole sorgere esattamente come ai nostri giorni, Anassimandro immagina per primo che la Terra galleggi in un universo espanso e che il Sole le passi sotto, muovendosi circolarmente. Poi, supponendo che il Sole sia molto più grande della Terra, ne stima la distanza da essa, stabilendo che questi elementi debbano essere necessariamente molto lontani tra di loro, altrimenti non si vedrebbe il Sole così piccolo.

Sarà poi Copernico, circa 2000 anni dopo, a sistematizzare e dimostrare alcune di queste intuizioni (e a far girare la Terra intorno al Sole e non viceversa, la rivoluzione dei corpi celesti di cui sopra) espandendo ancora di più i confini dimensionali dell’universo e le distanze tra gli astri; confini e distanze che continuano a espandersi man mano che la nostra conoscenza in merito aumenta e che gli strumenti per osservare i fenomeni celesti si affinano.

La maggior parte degli sforzi di comprensione dell’universo sono stati compiuti da un punto di vista certamente privilegiato (la Terra è un bel posto dopotutto, una sorta di ermo colle di leopardiana memoria che permette all’umanità di affacciarsi verso l’infinito), ma anche piuttosto limitato e limitante per l’osservazione dei fenomeni celesti (è al contempo ermo colle e siepe, che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude). Del resto se si è inseriti in un sistema, è difficile vederlo nella sua totalità.

Per avere un’immagine intera e a colori della Terra bisognerà infatti aspettare 2500 anni dopo Anassimandro, ovvero arrivare al 1972, quando la missione Apollo 17 consegnerà all’umanità quella protospecie di selfie terracqueo che è la cosiddetta Blue Marble, scattata a trentaduemila chilometri di distanza dal globo. Eppure, già da parecchio tempo prima si immaginava quale forma avesse e le sue rappresentazioni erano sempre più vicine alla realtà.

Micro #

Quanto sopra descritto non influenza unicamente il rapporto con le cose molto grandi, ma anche con le cose molto piccole. Louis Pasteur sviluppa e dimostra la teoria dei germi senza avere i mezzi per vedere la maggior parte dei microrganismi a cui fa riferimento. Le sue convinzioni erano così solide che sviluppò il vaccino antirabbico 19 anni prima che si capisse che la rabbia era dovuta ad un virus. Trovò la soluzione a un problema che si conosceva, almeno per la parte sintomatica, da circa quattromila anni senza aver individuato e isolato la sua origine. Questa era stata immaginata, studiata e teorizzata a dovere, ma nessuno era in grado di vederla e non lo sarebbe stato fino all’avvento della microscopia elettronica, circa 45 anni dopo la prima inoculazione di vaccino antirabbico, avvenuta nel 1885. Ciò non impedì comunque di trovare una soluzione efficace.

Tuttavia immaginarsi le cose non basta, e tantomeno darne una rappresentazione. È necessario anche dimostrare la validità delle idee e dimostrare come queste siano migliori di quelle correnti. Anassimandro ebbe la forza di argomentare le proprie posizioni e di scardinare tutte le convinzioni precedenti. Riuscì a svelare l’apparenza, arrivando a “costruire un’alternativa consistente e credibile alla vecchia immagine del mondo”.

Fortunatamente un tale sforzo può essere lasciato a scienziati, inventori e ricercatori. Se tra i fisici è aperto il dibattito sulla gravità quantistica, ovvero il tentativo di combinare la teoria del molto piccolo (la meccanica quantistica) alla teoria del molto grande (la relatività generale di Einstein), a tutti gli altri comuni mortali rimane il compito, comunque impervio, di prendere consapevolezza delle questioni che governano il proprio rapporto fisico e cognitivo con il micro e con il macro, e in questo caso la sola immaginazione forse può bastare.

Ci sono voluti circa duemila anni per per scardinare l’idea di un universo geocentrico, ce ne vorranno ancora molti altri per scardinare l’idea di una realtà antropocentrica

Questo probabilmente succederà quando gli esseri umani riusciranno a gestire mentalmente il rapporto con fenomeni molto più grandi o molto più piccoli di loro, fenomeni di scala estremamente diversa da quella umana, abbandonando finalmente il modello dell’uomo vitruviano come strumento di misura del mondo. La tendenza a misurare tutto in funzione del corpo umano pone dei limiti evidenti, per questo risulta difficile entrare in relazione con un virus di circa 10 nanometri di diametro o con la responsabilità di emettere annualmente circa 26 miliardi di tonnellate di CO₂ in atmosfera. Ci si ritrova irrimediabilmente in crisi davanti ai fenomeni che tali oggetti molto piccoli o molto grandi provocano, soffrendo la mancanza di comprensione e di consapevolezza di una parte di realtà.

Solo 566 persone al mondo hanno visto la Terra nella sua interezza, hanno potuto godere della veduta d’insieme. Si tratta di tutti gli astronauti e le astronaute che dalla missione di Gagarin in poi hanno orbitato intorno al globo. Oltre al fatto che affermano che la terra sia tonda, sono anche d’accordo nel descrivere l’esperienza visiva come estremamente potente, in grado di far compiere un salto mentale in termini di consapevolezza riguardo alla dimensione umana e terrestre in rapporto all’universo. E in fin dei conti potrebbe proprio essere questo ciò di cui abbiamo bisogno.

No, non parliamo di viaggi spaziali, che rimarranno per molto tempo appannaggio di una selezionata ed esclusiva minoranza, ma di costruire nuove visioni e nuove narrazioni di ampissimo respiro, capaci di muoversi su scale spazio-temporali anche molto diverse e distanti tra loro, tenendo insieme il micro e il macro, in grado di allenare le nostri menti alla flessibilità necessaria per affrontare l’ampiezza dei problemi che ci si pongono davanti.


Scritto insieme ad Andrea Rosada per la Issue #1 della rivista Istmo.
Fonte foto di copertina