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A proposito di whistleblowing

·1095 parole·6 minuti

Scritto il 19 maggio 2016 dopo la partecipazione a Building Digital Campaigns, un workshop di alta formazione sul digital campaigning per l’innovazione sociale organizzato da Riparte il futuro e Latte Creative con il patrocinio dell’Università di Urbino.

Le difficoltà di trovare una sua precisa collocazione all’interno del nostro ordinamento giuridico sono sintomaticamente rappresentate dalla stessa difficoltà di trovare un corrispondente termine italiano per qualificarlo. Anzi, le maggiori difficoltà nascono principalmente nel tentativo di trovare un “omologo” che abbia connotazioni positive, considerato che molti dei sinonimi che potrebbero coincidere con il “fischiatore” inglese richiamano concetti principalmente negativi: si pensi al pentito, al delatore, al collaboratore di giustizia o, ancora, allo spione.

Giacomo Gargano, La “cultura del whistleblower” quale strumento di emersione dei profili decisionali della pubblica amministrazione, in “federalismi.it”, 13 gennaio 2016, pag. 4.

A ben vedere la questione del whistelblowing (e conseguentemente del whistelblower) esiste già da tempo (“Negli Usa questa figura è tutelata dai tempi di Lincoln”) e il termine che indica l’atto di denunciare un illecito a cui si è assistito sul posto di lavoro è entrato nell’uso corrente anglosassone almeno dal 1958.

In italiano whistleblowing significa letteralmente “soffiare il fischietto” ed esprime una metafora che richiama l’azione del fischio per segnalare un comportamento non consentito e provvedere alla sua punizione. Per capire il riferimento può aiutare pensare all’ambito sportivo e al ruolo dell’arbitro: il fischietto è uno strumento necessario per garantire la regolarità e il divertimento del gioco affinché non risulti falsato favorendo una squadra o l’altra. In Italia, complice la storica presenza mafiosa e la diffusa tendenza all’omertà, la persona che denuncia un illecito viene indicata con parole dal tono fortemente dispregiativo: canarino, chiacchierone, spione, infame… Per capire quanto pervasa sia la connotazione negativa della figura di chi denuncia, si può allargare il campo anche alle espressioni e non solo alle parole, segnalando per esempio la cantilena

chi fa la spia non è figlio di Maria non è figlio di Gesù e quando muore va laggiù. Va laggiù da quell’ometto che si chiama diavoletto!

usata con altre varianti tra i bambini durante i loro giochi non permessi dagli adulti.

La suggestiva nenia, per quanto poco valida come prova scientifica, indica un rapporto profondo e inquietante tra educazione, fede e silenzio. E volendo andare un poco oltre le semplici suggestioni, ci si può soffermare sul problema della doppia morale cattolica e su come il sacramento della Confessione venga in alcuni casi percepito e vissuto, soprattutto in seno all’istituzione ecclesiastica: un “lavaggio di coscienza” sufficiente per vivere in pace con se stessi e la società.

Un’altra frase denigratoria che spesso si sente pronunciare in relazione ai fatti di whistleblowing o simili è “io mi faccio i fatti miei”. Questa, a differenza della cantilena da bambini precedente, è un mantra che udiamo a tutte le età e senza varianti regionali; per spiegare nel dettaglio il significato di questa frase sono istruttive le parole dell’antropologa Amalia Signorelli pronunciate durante un intervento ad Annozero del 30 aprile 2015:

(…) [noi] italiani siamo molto contenti di farci i fatti nostri. Io come antropologa una volta ho dovuto fare una specie, così, di amichevole gara con altri colleghi stranieri: si trattava di trovare la frase che esprimesse meglio mediamente la cultura del paese a cui appartenevamo. E non c’è dubbio che per l’Italia la frase giusta è che ‘uno si deve fare i fatti suoi’, nel doppio significato di: curare i propri interessi e chi se ne frega di quelli degli altri; e nel significato che tu non ti devi impicciare dei fatti miei, perché sono fatti miei e me li faccio da me, e casomai sennò mi vengo a impicciare dei fatti tuoi (…).

Un’interpretazione aggiuntiva, legata al secondo significato esplicitato dalla Signorelli, si può riassumere con la frase: fatti i fatti tuoi perché nessuno sa fare le cose meglio di me. In pratica significa considerarsi i migliori su tutto, senza il bisogno di chiedere insegnamenti a qualcuno, nella profonda convinzione di essere superiori agli altri che, di conseguenza, sono meritevoli solo del nostro disprezzo. Un’ipotesi d’origine relativa a questa arroganza del sentirsi “già imparati” potrebbe essere che nasca dal retaggio di essere stati il centro del mondo per lunghe epoche storiche, di essere quel popolo che in Epoca Romana si è elevato sugli altri militarmente e che secoli dopo ha dato vita al Rinascimento, momento in cui, invece, l’elevazione rispetto ad altri è avvenuta sul piano intellettuale.

Questo terzo aspetto torna utile per spiegare una questione che con il whistleblowing apparentemente c’entra poco, cioè il razzismo latente che molte persone sottovalutano e che è evidenziato invece dalle premesse ad alcuni discorsi:

“io non sono razzista, ma gli immigrati devono stare a casa loro”; “io non sono omofobo/a, ma i gay che si baciano in pubblico non li sopporto” (un po’ come dire “io non sono mancino, ma scrivo con la destra”).

Spiegato nel dettaglio, il razzismo che accomuna il whistleblower all’immigrato o alla coppia gay non va chiaramente cercato nelle cause che portano alla discriminazione e che sono evidentemente diverse, ma negli effetti della discriminazione stessa, cioè nell’emarginazione sociale, negli insulti, nello stigma, nel mobbing, nelle minacce che queste tipologie di persone subiscono.

Dunque i tre significati dell’espressione “uno si deve fare i fatti propri” compongono il substrato culturale contro cui il whistleblower — e chi lo sostiene — si deve scontrare. Tralasciando però i pur interessanti motivi giuridici ed economici che dovrebbero spingere un governo ad adottare misure che tutelino questa figura, sembra più interessante e profondo (dato che si tratterebbe di innescare un cambiamento culturale) concentrarsi sulle cause che portano all’isolamento sociale del whistleblower. Le ragioni sono che è una persona che non si è fatta gli affari suoi, che si prende cura degli interessi collettivi e che, fiducioso e consapevole dei propri pregi e difetti, accetta di collaborare con altri senza diffidenza.

Esistono poi fattori linguistici che rendono opaco il significato della parola whistleblowing per la maggior parte degli italiani. Probabilmente l’importanza dell’azione di denuncia viene identificata e capita, ma subisce la mancanza di una parola italiana con un alone di significato neutro, se non addirittura positivo, che aiuti a esprimere il concetto. Il problema più urgente quindi è inventare un campo semantico contrario a quello che soggiace alle parole ben radicate e negative che denigrano la figura del wistleblower.

Per questa ragione l’idea di una campagna che usi un approccio linguistico per affrontare il problema del dare un nome migliore e più comprensibile all’azione del whistleblowing può essere un efficace sostegno alle altre che si concentrano sulla diffusione della pratica in sé.