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Verso la foce - Dispaccio #10

Introduzione #

Un libricino sottile che nasconde quattro racconti a comporre un diario di viaggio che Celati ha scritto percorrendo a piedi la zona del delta del Po, da Gadesco-Pieve Delmona alla foce, tra il 1983 e il 1986, quando la nube tossica di Černobyl incombeva nei cieli e negli animi delle persone. I titoli dei singoli racconti sono: Un paesaggio con centrale nucleare, Esplorazioni sugli argini, Tre giorni nelle zone della grande bonifica, Verso la foce e da ognuno c’è qualcosa che valga la pena ricordare.

Letto tra il campeggio e la spiaggia, in Corsica, segnando con le orecchie alle pagine i punti più significativi, ma con qualche difficoltà a recuperarli nella pagina perché erò sprovvisto di matita.
Le descrizioni così accurate stupiscono per la mancanza di azione, diventando praticamente delle didascalie di possibili foto.

Colpiscono alcuni passaggi più di altri, come sempre; influenzato in questo momento dalla questione climatica ed ecologica, il benessere animale e gli allevamenti intensivi e la socialità che manca, mi accorgo di come alcuni temi fossero già presenti alla fine degli anni ‘80.

Leggendo Celati ci si accorge che le cose - in genere termine estremamente vago e pigro - assumono contorni precisi per quanto immerse in pensieri e ragionamenti confusi. Come ogni diario insomma, anche questi racconti proseguono per somiglianze e aloni di spazio e, soprattutto, tempo dilatati.

Da Un paesaggio con centrale nucleare #

Pagina 29 #

Mentre ero sul cavalcavia che passa sopra la stazioncina di Pieve San Giacomo, non vedevo sparse case coloniche bensì suinifici, capannoni industriali ognuno col suo silos e spesso case coloniche accanto. Là dentro centinaia di migliaia di maiali in attesa di massacro, l’odore della loro carne bruciata invade aree di chilometri e chilometri (Paola mi ha spiegato che quando devono bruciare i maiali malati di afta epizotica, li legano a grappoli con catene per una gamba, sollevano i grappoli con gru e semplicemente li scaricano in una fornace).

Da Esplorazioni sugli argini #

Pagina 55 #

Luciano Capelli sta fotografando un piccolo ponte in cemento con ringhiera ossidata, papaveri sul ciglio del ponte e sullo sfondo bianche nuvole. Venuto con me per fotografare questo paesaggio dagli argini, fino alle foci del Po (se ci arriviamo), Luciano mi conforta con la sua pazienza e lo guardo volentieri. Laggiù l’acqua del ruscello è stagnante e rossastra, la mota sulla riva tutta crepata per la siccità di molti mesi, e il polline lanoso dei pioppi s’è posato dovunque, anche su un grumo di catrame. Piante di camomilla crescono a caso in un fosso pieno di macerie, dove un copertone sventrato segna il limite di qualcosa che non so.

Pagina 67 #

Stanno trasmettendo una partita di calcio, ce ne accorgiamo passando per un altro paesino con aria disabitata. Guardando le vecchie case pitturate con colori che non sono più in commercio (molte d’azzurro, pittura fatta col verderame che si usa per irrorare i frutteti), non si ha l’idea d’una povertà incombente, ma piuttosto di luoghi dove nessuno vuole abitare perché “non succede niente”.
A San Siro una palazzina color malva spicca sulle altre case perché è pitturata con colori acrilici. S’è affacciato un signore e abbiamo attaccato discorso. Il signore ha detto che sta rimettendo a nuovo la sua palazzina, che ha viaggiato molto e adesso è stanco di viaggiare, e che i democristiani sono delle merde schifose che gli danno il voltastomaco. Lui si chiede: come è possibile che un paese d’imbecilli continui a dar loro il voto? Non lo manda giù.

Pagina 72-73 #

Soffriva molto per questa diffidenza della gente, Ruggeri, quando lavorava nel ferrarese come ufficiale delle acque. Doveva sorvegliare il livello del fiume, e anche badare che nessun battello non autorizzato venisse a scavare il fondo del fiume per portar via della ghiaia. Ma tutti i battelli erano autorizzati, e lui sapeva che andando a scavare si provocano disastri, perché l’assetto dell’alveo rimane sconvolto e il fiume impazzisce.
Lo faceva andare in bestia il fatto che tutti trattassero il fiume come un oggetto inanimato. E appena poteva, spiegava a tutti che il corso del Po cambia sempre (come il nostro corpo), a causa della forza centrifuga dell’acqua che erode le sue sponde concave e dei materiali alluvionali che si depositano sulle sponde convesse, così che ogni sua ansa è destinata ad essere erosa dalla parte interna, mentre la curva esterna a poco a poco è chiusa da un terrazzo fluviale, e i meandri si raddrizzano e si riformano più a valle col movimento continuo d’una biscia che avanza, rimodellando sempre la via delle acque fin dalla lontanissima era del quaternario.
Ma adesso che tutti lo prendevano per un oggetto inanimato, il fiume stava lentamente impazzendo ed era diventato incomprensibile nei suoi movimenti, anche per via dei due cordoni d’argini pensili quasi ininterrotti sulle sue rive. E allora persa quella saggezza del fiume, restava solo la diffidenza degli uomini: ecco le meditazioni di Ruggeri quando lavorava come ufficiali delle acque.

Pagina 77 #

In fondo là fuori non c’è niente di speciale da vedere o registrare, c’è solo tempo che passa. Lo spazio è una specie di grande galera dove si sta ad aspettare qualcosa: nessuno sa cosa, ci si fa delle idee, e c’è solo tempo che passa. Sto scrivendo in una nebulosa di gas depressivo.
In serata abbiamo riattraversato il Po per il ponte di Stellata, e il fiume era pieno di riflessi iridati, molti pescatori seduti sui bordi della strada pescavano nei canali. Andiamo verso Ferrara.
Abbiamo deciso di prendere la strada per Bondeno perché m’era venuto in mente di andare a cena nel paese dove è nato mio padre, ma arrivati a Bondeno ci siamo infilati nel primo ristorante che abbiamo trovato. Sullo stradone provinciale sfilate di fabbriche di mobili, in numero quasi infinito, e fabbriche di articoli di plastica, una fabbrica d’armi, mentre il paesaggio attorno era gremito di villette e palazzi condominiali nelle campagne. Solo pochi vecchi casoni e case coloniche ancora visibili dalla strada.
Di qui comincia una delle zone più ricche del mondo, più verso Modena che verso Ferrara: è da Modena che proviene la nebulosa di gas depressivo, soffocante, e dove passa te ne accorgi subito. Lo so bene che proviene da laggiù, dove i quattrini hanno fatto intorno a sé la terra bruciata. Più niente da salvare, famiglia nella tomba e amen. Non avrai più luogo d’appartenenza.
Tutto continua come ogni sera in qualsiasi posto, ci sono i cerimoniali del tramonto e dopo spunterà la luna. In un ultimo giro serale per le campagne capitiamo davanti ad un grandissimo locale da ballo, che si chiama KONTIKI MUSIC HALL, circondato da palmizi illuminati, in mezzo al buio dei campi. Sotto i palmizi sciami di ragazzi e ragazze in cerca di qualcuno con cui accoppiarsi, ci ispiravano simpatia.

Tre giorni nelle zone della grande bonifica #

Pagina 95 #

Sulla piazza centrale di Codigoro, in un bar, ora del pranzo. A momenti la voglia di scrivere mi passa, ho l’impressione che sia inutile annotare ciò che vedo, perché questa è una finzione come le altre. Ma poi mi vengono in mente quelli che sistemano tutto con la loro saputezza, credono solo a ciò che hanno letto nei loro libri e giornali, e trattano tutto questo mondo con sufficienza perché odiano sentirsi smarriti, esposti alla casualità delle apparenze. Se hai la sensazione di capire tutto, passa la voglia di osservare.

Pagina 97 #

C’è un monumento ai caduti, col milite ignoto dall’aria esaltata che sventola uno straccio di bandiera bronzea. Ci sono molti bar e a sinistra una caserma dei carabinieri in stile fascista, con facciata convessa in travertino. Le cadenze che sento in giro, le vocali ferraresi, le nenie delle nasali, somigliano a quelle della famiglia di mia madre.
Fuori dalla piazza un altro incrocio, lì vicino c’è una sala giochi e sciamo di ragazzi in motorino che vanno e vengono mentre scende la sera. Qui per la strada ci sono bar per adulti, giovanotti in calzoncini seduti nelle sedie sul marciapiede si toccano i testicoli nell’eccitazione d’un dibattito calcistico. Uomini col cappello in testa sostano sotto un lampione, mostrano il piacere di chiacchierare.
Nel ristorante, a cena, tutte le occhiate mi dicono che sono un’unità incompleta. È sempre come se la gente sola portasse con sé strani enigmi. Qui si festeggia qualcosa, ci sono vecchi a capotavola d’una lunga tavolata, giovani e bambini in mezzo che fanno brindisi. Le donne con vestiti a fiori e spesso un’aria di grande sicurezza sessuale (conosco quest’impressione che danno certe donne di campagna). Un bambino ha preso uno scapaccione e s’è nascosto sotto la tavola, adesso guarda le gambe delle donne sotto le sottane.
Non si è mai estranei a niente di ciò che accade intorno, e quando si è soli ancora meno. Il corpo è un orano per affondare nell’esterno, come pietra, lichene, foglia.

Pagina 103 #

Anche l’immaginazione fa parte del paesaggio: lei ci mette in stato d’amore per qualcosa là fuori, ma più spesso è lei che ci mette in difesa con troppe paure; senza di lei non potremmo fare un solo passo, ma lei poi porta sempre non si sa dove. Ineliminabile dea che guida ogni sguardo, figura d’orizzonte, così sia.

Verso la foce #

Pagina 124 #

Il pensiero della fine del mondo ormai ci accompagna come un’incertezza da bradisismo o mareggiata incombente: centomila sprofondamenti al secondo dentro e fuori di te, città strane dove non ti ritrovi, e visione di uomini chiusi in casa davanti a un televisore perché non sopportano di guardare in faccia altri uomini.

Pagina 134 #

Pretese delle parole; pretendono di regolare i conti con quello che succede là fuori, di descriverlo e definirlo. Ma là fuori tutto si svolge non in questo o in quel modo, c’entra poco con ciò che dicono le parole. Il fiume qui sfocia in una distesa senza limiti, i colori si mescolano da tutte le parti: come descrivere?
Come quando vai a cercare un amico e lui non c’è, senti la vanità della visita. Ti accorgi d’esser lì, vorresti gettare dei ponti con le parole, ma impossibile. Smettiamola: il buco dove tutto scompare è qui dove sono, ingorgato dal sentimento di tutti quelli che se ne sono andati prima di me. Sono qui alle foci del Po e penso a loro.
D’un tratto risuonano richiami di gabbiani, uno chiama e altri rispondono. Anche le parole sono richiami, non definiscono niente, chiamano qualcosa perché resti con noi. E quello che possiamo fare è chiamare le cose, invocarle perché vengano a noi con i loro racconti: chiamarle perché non diventino tanto estranee da partire ognuna per conto suo in una diversa direzione del cosmo, lasciandoci qui incapaci di riconoscere una traccia per orientarci.