Finale a sorpresa con sentimento
Salivano in treno a Codogno tutti i venerdì, e il bambino andava a Milano perché i suoi genitori erano separati; doveva passare cinque giorni col padre a Codogno e il fine settimana a Milano con la madre. La bambina andava a Milano perché era in cura da uno psicanalista, per un suggerimento di qualche dottore, che suo padre aveva trovato giustissimo.
Lei forse aveva 13 anni, lui forse 11. Siccome a casa entrambi si annoiavano sempre a sentir parlare i loro genitori, s’erano formati l’idea che i genitori sono tutti noiosi. Poi hanno sviluppato l’idea, giungendo alla conclusione che tutti gli adulti sono noiosi. Infine alcune circostanze li hanno portati a credere che genitori e adulti, più che noiosi, sono cretini: veramente così cretini che non val la pena di badare a ciò che dicono o fanno.
Bambini pendolari che si sono perduti, Gianni Celati, 2010, pag. 3.
A Codogno, cittadina da dove proveniva il famoso paziente zero della prima ondata di Covid-19 in Italia, secondo Celati i bambini, in pratica, nascono già pendolari per un’imposizione dei genitori. Come gli adulti vivono gli stessi conflitti per allontanare la noia, subiscono le stesse frustrazioni che poi riversano verso gli altri decretando in maniera assolutista l’estrema cretinaggine di tutte le persone che incontrano. Da pendolare succede spesso di annoiarsi e di pensare che le persone intorno siano un po’ cretine, ma se i bambini non vengono colpevolizzati perché, appunto, sono bambini, nemmeno vanno colpevolizzati i pendolari che spesso, presi dal problema di mettere insieme troppe vite in una, reagiscono in maniera scomposta a quello che capita, sia una nevicata, un ritardo o un guasto. Soprattutto poi, come non sogneremmo mai di maltrattare dei bambini perché pensano che gli adulti sono cretini, non bisogna maltrattare i pendolari o prenderli in giro con abbonamenti cari, formule magiche di carnet di viaggi, tagli ai servizi, incertezza sparsa e diffusa.
Più volte negli ultimi anni la rivista Altreconomia ha affrontato il tema del servizio Alta Velocità sui treni, decretando l’insostenibilità economica e il fallimento dell’intero progetto; anche il collettivo Wu Ming in diversi contesti e momenti ha chiarito il senso di un progetto che, trent’anni fa come adesso, continua a non avere alcun senso, soprattutto se confrontato con il Pendolino. Come racconta Wu Ming 1 in Un viaggio che non promettiamo breve. Venticinque anni di storia No Tav del 2016:
Quand’ero ragazzo, in Italia il treno veloce c’era già. Era il cosiddetto «Pendolino». Per la precisione, l’Elettrotreno 450 (ETR450).
Entrato in servizio nel 1988, l’ETR450 toccava i 250 chilometri all’ora in rettilineo sulle linee ferroviarie tradizionali, quelle elettrificate a 3 kV cc. In curva era piú veloce del trenta per cento rispetto ai treni rapidi convenzionali. Arrivava da Milano a Roma in 3 ore e 58. Da Torino Porta Nuova a Milano Centrale, il Pendolino ci metteva un’ora e venti. Nel 2016, il Frecciarossa ci metteva un’ora.
Un treno in servizio in Italia che dalla fine degli anni Ottanta arrivava ai 250 km/h usando la linea già esistente aveva un solo difetto: non apriva nuovi cantieri per i binari e le stazioni e quindi non permetteva di drenare soldi pubblici.
Intanto però, come segnalato da Pendolaria 2019, da anni i cittadini affrontano tagli continui e scarsi investimenti per quelle linee che davvero potrebbero essere utili:
Innanzitutto occorre rimettere al centro dell’attenzione l’incredibile ritardo e assenza di investimenti in cui si trovano tante infrastrutture che renderebbero più veloci e comodi i viaggi di milioni di persone che ogni giorno si spostano per ragioni di lavoro o di studio. Quando si parla di incompiute in Italia ci si concentra sempre sulle grandi opere, senza guardare a quelle più urgenti che sono proprio dove è larga parte della domanda di trasporto nel nostro Paese. Dietro le prime ci sono di solito general contractors e grandi imprese, forti interessi in gioco e quindi si prendono tutto lo spazio di attenzione mediatica e politica. Eppure se si va a guardare al territorio italiano e alle città si scopre una realtà molto differente […].
È nelle grandi aree urbane dove si concentra larga parte della domanda pendolare, pari all’80% della domanda di mobilità in Italia: Milano e Roma in primo luogo, Torino, Genova, Bologna, il quadrilatero Veneto (Treviso, Padova, Vicenza, Mestre), Firenze, Napoli, Bari, Reggio Calabria e Palermo. (pag. 54).
Ma, al netto di tutte queste considerazioni, nel mondo nuovo post Covid-19 ci saranno ancora i pendolari? Numerosi sono i cambiamenti in atto legati allo smart working e, ormai, probabilmente troppe persone ne hanno capito i vantaggi e i risparmi per convincerle a tornare indietro. Le occasioni non mancheranno: magari nasceranno nuove forme di pendolarismo leggero, con alcuni giorni a casa e altri in ufficio o all’università, oppure svincolare del tutto i luoghi fisici e il tempo di lavoro permetterà di ripopolare i borghi, le valli abbandonate, affrontare nuove sfide progettuali o vecchie conoscenze collettive e quasi dimenticate, come prendersi cura di un bosco; di contro, le disuguaglianze sociali potrebbero esplodere tra chi, esagerando, si potrà permettere di stare nella propria torre d’avorio, al sicuro da ogni virus e da ogni contatto sociale, e chi, costretto dal lavoro, continuerà a essere a rischio o riprenderà con un tipo di vita frenetico.
Nei tre anni da pendolare, pur sforzandomi di rendere il tempo di viaggio un tempo utile, era quotidiano pensare a quanta vita stessi perdendo. Quella fatidica mattina di dicembre, con i suoi imprevisti, ha dato la spinta per ordinare alcune idee, confermate dal fatto che a nessuna delle persone intervistate per questa serie manca quel tipo di vita. Allora, anche se non si può sapere ancora quando verrà e quali conseguenze avrà, immaginare un mondo nuovo è comunque un esercizio utile: non tanto per crearsi una realtà parallela dove fuggire, ma per capire veramente come lo vogliamo.
L’immagine è di Valentina Cobetto, autrice del progetto Il passeggero 8b.