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Amelia Rosselli, la poesia a difesa della vita

Premessa #

La figura di Amelia Rosselli nel panorama novecentesco della poesia italiana è interessante per molti aspetti. Innanzitutto per le sue radici: nata a Parigi, ha vissuto in Francia, Inghilterra e Stati Uniti prima di trasferirsi definitivamente a Roma. Altro aspetto, in parte legato al precedente, è l’impossibilità di etichettarla in una corrente letteraria tra quelle presenti in Italia dal 1950 in poi.

Il suo status unico per formazione, apertura mentale e lingua (conosce molto bene l’italiano, l’inglese e il francese) le permette di attingere a un bagaglio di conoscenze estremamente vasto e, soprattutto, di guardare la generazione di poeti a lei contemporanea con un occhio critico che etichetta alcuni poeti italiani come provinciali. Sostiene a ragion veduta che essi, leggendo i testi stranieri anni dopo la loro pubblicazione nei paesi d’origine e in traduzione, prendano idee assolutamente nuove, ma al solo scopo di imitarle senza che vengano contestualizzate nella tradizione poetica italiana.

È necessario aggiungere i suoi studi di musica dodecafonica ed etnomusicologia tra gli elementi significativi della sua preparazione culturale e anche un certo interesse per la matematica. Per queste ragioni individuare un aspetto più rilevante degli altri nella sua poetica è un lavoro scontroso e ricco di insidie: tutto è un amalgama che paradossalmente si forma per opposizioni, dicotomie, violenti contrasti. A volte essi rimangono tali e quindi insoluti, più spesso si dissolvono nella delusione prima affettiva, poi politica e, infine, poetica. In questo processo contrastivo interviene la volontà della Rosselli di ordinare il proprio sentire: se l’opposizione produce un conflitto insanabile, questo però può essere circoscritto e reso innocuo attraverso l’uso di una forma poetica rigida che rinnovi la tradizione letteraria, ma che non sia una mera riproposizione di un canone. Questo perché le vicende personali e storiche che hanno sconvolto la vita della Rosselli e del mondo hanno tracciato un solco, una ferita che nessun linguaggio può esprimere; o meglio: il linguaggio della tradizione non è più in grado di esprimere il dolore e la sofferenza che Amelia Rosselli e la coscienza collettiva hanno vissuto fin dall’assassinio del padre e dopo le nefandezze della Seconda Guerra Mondiale.

Esiste quindi un microcosmo di dolore che nel corso degli anni consuma la forza espressiva di Amelia Rosselli e che si riflette in un macrocosmo comune ancora lacerato dalle ferite belliche. A unire i due universi c’è il tentativo, compiuto in realtà da gran parte della letteratura italiana della seconda metà del Novecento, di trovare un linguaggio capace di raccontare entrambi i mondi. E se per la Rosselli la poesia, rispetto alla prosa lenta e pesante, poteva essere il mezzo espressivo corretto per esprimere la sofferenza, essa si scioglie davanti alle fatiche del quotidiano, al punto che nei suoi testi diventa impossibile riconoscere un’unità di misura, un “elemento organizzativo minimo nello scrivere” (Rosselli A., 2004: 64).
La singola lettera, la sillaba, la parola e il periodo assumo un’importanza fondamentale e, in un meccanismo a matriosca, ognuno trasferisce la propria disciplina nell’elemento contenitore immediatamente seguente, fino ad arrivare al libro unico: un insieme di singole raccolte definitive, chiuse e sicure. In quest’ottica i testi pubblicati diventano un rifugio in cui sì possono convivere i paradossi, le lotte e le tensioni, ma che, se scritte, diventano controllabili.

Il testo e la forma #

Ciò che a occhio colpisce chi affronta una poesia della Rosselli è soprattutto l’apparato formale costruito: ci si trova di fronte a un testo graficamente compatto e quadrato, in cui ogni lettera copre lo stesso spazio e al cui interno, a partire dal centro, si dispongono le idee. L’importanza di quest’ordine che come spiegato in Spazi metrici è concettualmente mutuato dalla dodecafonia e dato dalla lunghezza del primo verso, è fondamentale perché si pone da quadrato entro cui includere un flusso scrittorio potenzialmente indefinito. Allo stesso tempo permette alla Rosselli di stabilire cosa includere ed escludere dal recinto in un gioco di tensione tra l’assoluto e il quotidiano.

Soprattutto nella sezione Variazioni (123) di Variazioni belliche, in cui l’agonismo è più serrato e quindi è più forte la potenza evocativa delle parole, appare evidente la densità dei testi: ogni poesia è tendenzialmente monostrofica e si costruisce accostando parole che spesso connotano più significati, a volte mischiati nelle diverse lingue di cui la Rosselli è competente. Quelli che Pasolini chiama lapsus sono in realtà dei processi consci in cui la singola parola storpiata diventa significante di più significati. È evidente che questo tipo di processo mentale che appare come un semplice gioco linguistico, è dovuto alla competenza trilingue della Rosselli e, aggiungendosi all’articolato apparato formale, esso provoca uno straniamento capace di frastornare il lettore per la sovrabbondanza di nuclei concettuali concentrati in una singola parola, la quale diventa anch’essa sede di un conflitto. Appare così l’idea di essere dentro a un vortice, a una spirale che si espande in direzione sia del microcosmo sia in quella del macrocosmo testuale. Trovare una chiusura formale allora diventa il mezzo, o almeno un tentativo, per salvaguardare il proprio essere.

Il linguaggio viene espressamente messo a tema nel poemetto La Libellula, pubblicato in Serie ospedaliera ma scritto già nel 1958 e inevitabilmente rivisto dopo la stesura di Spazi metrici. In particolare emergono riferimenti e rimandi a Montale e Campana che assolvono funzioni diverse all’interno del testo: da un lato l’appartenenza a un orizzonte negativo, la cui necessaria lingua letteraria falsifica la realtà, dall’altro, la capacità di raggiungere il sublime con la poesia, a cui Amelia Rosselli fa riferimento. Entrambi però confluiscono nella medesima risposta: in nessun senso e modo è possibile partire dal loro modello per avere un linguaggio nuovo, visto che non è attraverso la lingua di altri poeti che il mondo riacquista un senso.
L’indagine della Libellula del rapporto tra tradizione e lingua nuova ha lo scopo di trovare un nuovo classicismo poetico, molto formalizzato perché in grado di assorbire le istanze e le sollecitazioni della vera modernità musicale. Tuttavia, ogni interrogazione trova una risposta negativa: l’ipotesi che la lingua della poesia possa darsi come verità è ciclicamente affermata e subito dopo sconfessata in un gioco infernale che distrugge ogni tentativo di dialogo. E quando anche l’apparato formale viene meno, le maglie della rete si allargano e tra esse si infilano quegli elementi che riconducono all’orizzonte basso e quotidiano, la ricerca poetica del sublime subisce un’involuzione stilistica: la forma è più lineare, più prosaica e il verso più libero. Ma perché la forma perde le sue caratteristiche delineate in Spazi metrici? Perché si allentano le maglie?

Le vicende biografiche di Amelia Rosselli sono state molto tormentate: la morte del padre in Francia per mano dei fascisti quando lei è ancora una bambina, la morte della madre, sofferente di cuore da sempre, in Inghilterra mentre lei è in Italia e la morte di Rocco Scotellaro, suo intimo e fraterno amico, durante gli anni della sua formazione, sono episodi che testimoniano una sofferenza totale, conscia fin dall’inizi:
Da quando sono in Italia, da quando ho perduto mia madre, posso dire di avere vissuto sempre alla giornata… Mi considero una fallita, non so come mi guadagno da vivere, non ho una laurea, non ho un mestiere. (Barile L., 2010).

Questa sofferenza latente, contrastata per un lungo periodo della vita con la ricerca del sublime, prende il sopravvento quando Amelia Rosselli capisce che l’assoluto diventa irraggiungibile e che la poesia non riesce più a contenere il suo stato d’animo. Il malessere trasborda in ogni direzione ed è emblematico il verso di una poesia, alla fine di Documento, che recita “Ho finito di scrivere, e continuo!” (Rosselli A., 2012: 472).

Il dolore non si placa, ma allo stesso tempo la scrittura non riesce più a offrire quel quadrato di certezze che, seppur contraddittorie, erano alla base delle prime pubblicazioni. Ma cos’è il sublime tanto agognato? L’impianto formale costruito non è sufficiente come impalcatura per raggiungere la salvezza? Riuscire a iscrivere un flusso continuo, indefinito, eterno in un libro e controllare il proprio malessere, assegnandogli un luogo, un tempo e uno spazio non meritano di essere considerate operazioni degne dell’assoluto? La parte più sfuggente e contraddittoria della letteratura di Amelia Rosselli pare essere proprio questa: nelle sue poesie si delinea un percorso preciso che porta l’ordine a diventare gabbia, prigione, convenzione sociale da abolire nel momento stesso in cui si costituisce. Trovare l’equilibrio tra queste forze sembra impossibile e più passa il tempo (nel caso di Amelia Rosselli vale come più si procede nella lettura), più la mancanza di riconciliazione corrode la scrittrice, fino alla perdita di ogni speranza e ispirazione.

La sperimentazione metrica messa in atto nelle poesie mette in luce anche un altro aspetto letterario fondamentale, cioè se la parola sia in grado di rappresentare l’interezza della realtà. Questo, in verità, è un tratto tipico di tutta la letteratura del secondo Novecento e la posizione di Amelia Rosselli, le cui intenzioni sono quelle di mettere a nudo le falsità del mondo per ritrovare il caos da cui ripartire, oscilla tra il disincanto e la fiducia.

Per la scrittrice è impensabile riproporre il linguaggio della tradizione perché trova impossibile dare un’unità del mondo solo attraverso la lingua, ma, al contrario degli avanguardisti, crede che da esso sia necessario partire. Per questo il paradosso è fondamentale e ancor più importante è che esso sia racchiuso in una impaginazione grafica chiusa. Il quadrato offre la possibilità di generare un testo riconquistando il centro del senso e senza di esso infatti non viene concepito nessun altro modo di intendere la poesia. Allo stesso tempo, però, come nei tentativi geometrici di disegnare un quadrato e un cerchio della stessa area, c’è uno scarto, un’approssimazione dovuta alla inadeguatezza intrinseca della lingua e della matematica che possono solo approssimare la realtà. Il poeta è l’unico in grado di sacrificarsi per unire la lingua al mondo ed è in quello spazio di approssimazione che la Rosselli ricerca il sublime.
Il suo fallimento, constatato nelle poesie finali di Documento, però, non è solo suo, ma appartiene all’intero universo incapace di cogliere la sofferenza di chi è incastrato tra l’orizzonte dell’assoluto e del quotidiano, in una zona grigia e vuota in cui resta solamente la presa di coscienza della propria rovina.

Conclusioni #

L’aspetto più considerevole allora di tutta l’opera rosselliana può essere proprio la messa a tema di questo scarto tra il mondo e il linguaggio? La condizione di sofferenza della Rosselli è dettata dal fatto che vive (e noi con lei) bloccata tra il mondo (e le sue brutture) e l’incapacità di descriverlo? Per uno studente dei linguaggi come è chi scrive la questione assume un’importanza di gran valore: qual è la forma, la lingua, la tecnica, in un certo senso la tecnologia, che descrive meglio il mondo? La poesia, la musica, l’arte, il cinema, la fotografia, la matematica o altre? O tutte quante insieme?

Ognuno di questi ambiti ha le sue tecniche, i suoi strumenti e le sue regole e per alcuni studiosi incrociare le proprie materie di studio sembra essere quasi un’eresia; Amelia Rosselli, nell’unicità della sua esperienza di ricerca dovuta all’indipendenza di pensiero più assoluta, imbocca una strada in cui il miscuglio dei saperi (matematica, musica, lingue e poesia) e delle regole sembra assottigliare lo strato di nebbia e di approssimazione che si frammezza tra la realtà e il modo di rappresentarla. L’avere più categorie per incasellare gli elementi, più nomi per chiamare le cose, sembra una marcia aggiuntiva per capire meglio il senso del circostante. Eppure Amelia Rosselli esaurisce la propria ispirazione e attività creativa molto presto, a partire già dalla metà degli anni settanta (i testi pubblicati successivamente sono stati quasi tutti scritti in anni precedenti); la potenza evocata dal suo impianto formale non è più in grado di proteggerla, il tentativo di riconciliarsi ai fantasmi famigliari attraverso l’attività politica si trasforma in delusione nel momento stesso in cui capisce di aver commesso un errore rinunciando al rapporto con il sublime e, dopo un periodo di insalubre iperattività scrittoria in cui fatica a contenere il proprio flusso creativo, la malattia schizofrenica si acuisce costringendola a smettere di scrivere a macchina.

Il suo sacrificio necessario in nome della poesia per il quale rinuncia a tutto le provoca una vita di dolore affettivo (ma forse è anche l’unica fonte di sollievo): ciclicamente riemergono gli irrisolti per i quali è dilaniata dal senso di colpa, è allo stesso tempo inadatta a compiere ogni altro tipo di attività diversa da quella poetica e il tormento trova pace solo con l’atto estremo del suicidio, vissuto come un atto di ribellione nei confronti della vita troppo aspra e indigesta.
Quello che rimane è un’eredità difficile, quasi impossibile da cogliere per il rigore delle scelte formali e del percorso di vita coerente, come testimoniato dalle raccolte pubblicate, le lettere, le interviste e i saggi in cui sembra palese il tentativo fino all’ultimo di rivolta nei confronti di una condizione esistenziale non accettata, tanto meno voluta, ma patita: dapprima in rapporto alle figure evanescenti, ma allo stesso tempo invadenti e colpevolizzanti della famiglia, poi nei confronti dell’amore e della malattia; la sua poesia di fronte alle avversità tremende e feroci della vita è, in ultima analisi, un baluardo, quanto di più umano si possa compiere per non essere travolti dagli eventi. In quest’ottica, allora, la costruzione razionale di uno schema stilistico come quello presentato in Spazi metrici può essere considerato l’unico mezzo per raggiungere una possibile salvezza, per trovare un ordine del mondo che sia anche un modo vittorioso per seppellire l’ascia di guerra e smettere di combattere la vita.


Bibliografia #

  • Rosselli, Amelia, Spazi metrici, in Una scrittura plurale. Saggi e interventi critici, a cura di Francesco Caputo, Interlinea Edizioni, Novara 2004.
  • Barile, Laura, Molto perfezionista e un po’ smemorata, in È vostra la vita che ho perso. Conversazioni e interviste 1964-1995, Monica Venturini e Silvia De March (a cura di), Le Lettere, Firenze 2010
  • Rosselli, Amelia, Documento, in L’opera poetica, Mondadori, Milano 2012.