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Ascoltare con gli occhiali

Premessa #

Quando le persone che abitualmente indossano occhiali da vista si ritrovano senza, provano una strana sensazione. Per alcuni è una sorta di nudità interiore perché gli occhiali stabiliscono un muro difensivo per gli occhi che, secondo la tradizione popolare, sono lo specchio dell’anima. Per altri è uno smarrimento totale dovuto all’eccessiva importanza che la vista ha assunto rispetto a tutti gli altri sensi.

A tal proposito riporto un esempio esplicativo di come la vista sia diventata, per un qualunque essere umano alfabetizzato, tanto essenziale da bloccare tutte le altre funzioni sensoriali: un ragazzo va a trovare la nonna che, a un certo punto della conversazione, lo interrompe dicendo: “Aspetta un attimo che mi metto gli occhiali così ti sento meglio.” Può essere che il ragazzo in questione abbia sorriso dopo aver ascoltato questa frase, trovando paradossale che la nonna avesse bisogno degli occhiali per partecipare attivamente a un dialogo, dal momento che, per sentire meglio, di solito si usano apparecchi acustici. Ma proprio questo è il punto della questione: perché la nonna prende gli occhiali per ascoltare meglio il nipote? Di certo se il ragazzo fosse stato uno studente di scienze della comunicazione, non avrebbe considerato quel gesto con tanta superficialità. Anzi, avrebbe approfondito l’argomento e, dopo qualche ricerca, avrebbe avuto la dimostrazione del fatto che la nonna è una persona inserita pienamente nella cultura alfabetizzata occidentale.

Lo scopo di questo lavoro è proprio rendere esplicita quella ricerca. Dai tempi antichi in cui l’introduzione della scrittura ha generato forti polemiche e ragionevoli dubbi; passando attraverso la storia moderna in cui, grazie all’invenzione della stampa, la scrittura ha preso il sopravvento sull’oralità; per arrivare all’era elettronica che ha dato l’impulso per un nuovo linguaggio, caratterizzato da una nuova oralità, collegata direttamente alla scrittura.

Tempi antichi: Platone e la polemica contro la scrittura #

Nel Fedro Platone scrive: «Le lettere cagionano smemoramento nelle anime di coloro che le hanno apprese» perché chi si affida a esse, si ricorda delle cose grazie a segni esterni e non per merito di quello che ha veramente interiorizzato. Per Platone quindi la scrittura non è altro che un modo per rievocare e non per accedere direttamente alla memoria. Inoltre, sempre nel Fedro, il filosofo greco contesta il fatto che se si pone un’obiezione al testo scritto, esso non sia in grado di difendersi da solo, ma abbia bisogno dell’autore.

Questa critica alla scrittura può sembrare paradossale se si pensa che Platone, per renderla nota, l’abbia scritta in un testo che ha sì natura dialogica, ma resta comunque qualcosa di scritto e non di parlato. Bisogna dunque supporre che Platone fosse incoerente? O che avesse già capito che la scrittura avrebbe soppiantato il dialogo? La risposta a queste domande la offre lo stesso Platone in un altro testo. Ne La settima lettera rivela agli amici più cari di aver fallito nell’intento di convincere il terribile tiranno Dionisio di Sicilia a tradurre in legge le sue concezioni politiche perché, dopo averlo messo alla prova mostrandogli che cosa fosse l’attività filosofica, aveva capito che Dioniso non era in grado di comprendere ciò che gli aveva mostrato. Nel corso della lettera Platone spiega che se ritenesse la scrittura un buon metodo per divulgare le proprie idee, sarebbe lieto di utilizzarla. Ma egli ha molta più fiducia nel dialogo perché

solo una lunga frequentazione, una vera convivenza con la questione, può far sì che d’un tratto, come una luce che si accende all’improvviso, nasca nell’anima questa conoscenza, e si nutra poi di se stessa.

    (Platone, 2005: 32)

e poi

È necessario, infatti, che vero e falso in merito all’essenza intera siano appresi insieme, con tutti i saggi che ci vogliono, e impiegando molto tempo. Gli elementi devono essere saggiati l’uno contro l’altro, come su una pietra di paragone, con fatica nel corso di conversazioni che mirino a una confutazione benevola, fatta senza odio.

    (Platone, 2005: 37)

Per il filosofo quindi la vera filosofia, quella che si occupa della conoscenza, è una rivelazione improvvisa raggiungibile solo attraverso la fatica nel tempo e per mezzo di conversazioni basate su un contraddittorio. Al contrario, Platone è convinto che alla scrittura debbano essere affidate le cose poco serie, quelle che non riguardano la conoscenza.

Ma allora, considerato che la vera filosofia non si può scrivere e che uno scritto filosofico serio di Platone non esiste, dobbiamo pensare che tutto il sapere giunto fino ai nostri giorni riguardi solo le cose di poco conto? E che tutta la filosofia occidentale, basata sulla scrittura, racconti solo cose di poco valore? E se così fosse, quanto sarebbe ancor più grande la figura di Platone che tralasciava allo scritto quello che considerava non serio e che per noi, invece, è a fondamento del pensiero occidentale?

Tutte queste domande si risolvono nel rapporto tra dialogo e scrittura, ovvero tra idee e immagini. Esiste un’analogia tra l’opposizione delle idee alle immagini e quella del dialogo alla scrittura: come le immagini sono un richiamo per le idee, così lo scritto è una traccia per la memoria, cioè un aiuto per ricordare il tragitto che porta alla conoscenza. Questo rapporto-opposizione altro non è che la materia di studio della semiotica. L’indagine che si effettua tra significato e significante è la stessa anche per dialogo e scrittura, anzi si può anche dire che la scrittura è uno dei tanti significanti che esprimono un significato. Ma non è solo questo: il modo in cui Platone espone ciò che intende comunicare è fortemente influenzato dall’essere immerso in una cultura alfabetica. La razionalizzazione e il pensiero analitico sono diretti discendenti dell’alfabeto e dell’estrema frammentazione che esso comporta. In definitiva Platone non si rende conto di essere influenzato dalla scrittura nel modo di ragionare, e, soprattutto, non si rende conto di influenzare ancora di più il lettore; quindi risulta evidente che non è tanto quello che si dice a determinare le opinioni, ma è il come lo si dice, o, per meglio dire, con quale mezzo. Al pensiero non resta che adeguarsi al modo in cui viene divulgato che, per il caso di Platone, è lo stile della scrittura filosofica: dialogico, ma anche epistolare. La lettera assume i connotati della forma propria della filosofia e se il dialogo può essere appesantito da una dialettica troppo ridondante e quindi essere convincente solo perché “stordisce” chi ascolta, la lettera offre ai corrispondenti il tempo necessario per elaborare il proprio pensiero e sviluppare una risposta, rispettando ogni differenza.

Storia contemporanea: Walter Ong e Marshall Mc Luhan #

Fin dalla sua comparsa sulla terra è ragionevole pensare che l’uomo abbia utilizzato dei suoni per comunicare con l’esterno, sia con i propri simili, sia per difendersi o per aggredire. Per questa ragione, il processo che dà vita a un linguaggio, si può definire un processo assolutamente naturale come lo sono muoversi e nutrirsi. Associare a ogni oggetto un suono diverso permette all’uomo di sciogliere quel legame tale per cui se non si è vicini all’oggetto che si vuole indicare, non si può comunicarlo, in altri termini permette di “richiamare alla memoria” un oggetto visto e conosciuto in un altro luogo e in un altro tempo.

Walter Ong, nel suo saggio Oralità e scrittura, distingue tra cultura a oralità primaria e cultura a oralità secondaria o di ritorno. La prima è quella che si è formata ignorando cosa fossero la scrittura e la stampa; la seconda è la cultura dell’era elettronica, in cui una nuova oralità è stimolata dall’uso di apparecchi elettronici come la radio, il telefono e la televisione, che per funzionare dipendono dalla scrittura e dalla stampa. Per una persona altamente alfabetizzata capire come funzioni una cultura orale primaria non è semplice. Innanzitutto è difficile pensare a una parola come semplice entità sonora senza rimandare alla mente un’immagine della versione scritta della stessa ed è altrettanto complicato capire che quella parola esiste solo nel momento in cui viene pronunciata. Ciò conferisce un potere alla parola perché diventa modo dell’azione. Per chiarire questo concetto Ong riferisce un esempio:

Un cacciatore può vedere un bufalo, odorarlo, sentirne il sapore, toccarlo quando esso è completamente inerte, o morto; ma se ode il bufalo, è meglio che stia attento: qualcosa sta succedendo. In questo senso ogni suono, e specialmente quello che proviene da organismi viventi, è ‘dinamico’.

    (Ong W, 1986: 60)

Ogni suono è dinamico, cioè ogni parola è azione. A ulteriore dimostrazione di ciò tutti sappiamo che nella grammatica italiana ogni azione compiuta da un soggetto è espressa da un verbo. Etimologicamente “verbo” deriva dal latino “verbum”, cioè parola. Quindi, di nuovo, ogni azione è espressa da una parola. Questo accade nelle culture primariamente orali, in cui la parola è pensata solo come suono, ma tutto ciò influisce anche sull’organizzazione di un discorso. Infatti, un oratore non può richiamare fuori di sé quei concetti che vorrebbe esprimere: tutto deve essere memorizzato. Per un qualsiasi studente abituato ai libri, quindi, ad avere un rapporto visivo con le parole, è estremamente faticoso esporre oralmente ciò che ha imparato. Il ripetere in continuazione lo aiuta a memorizzare delle formule fisse che si collegano tra loro in modo da richiamare alla mente i concetti in modo sequenziale. In semiotica si potrebbe dire che lo studente collega i significanti per ricordarsi i significati. L’organizzazione in moduli ripetitivi, in frasi fatte e proverbi è alla base delle culture a oralità primaria sia perché rende più facile la memorizzazione dei concetti da parte di chi parla, sia perché li rende più assimilabili per chi ascolta. In questo modo il pensiero si intreccia con le formule, che ne determinano la sintassi.

Un primo tentativo di ricordare dei concetti al di fuori della memoria personale sono i pittogrammi. Essi sono dei marcatori che hanno un referente preciso, cioè ritraggono oggetti reali. Un tipico esempio sono le pitture rupestri. Più evoluti e articolati, invece, sono gli ideogrammi, cioè immagini in cui si raffigura un oggetto che in qualche modo rappresenta un’attività, un esempio è l’immagine della bilancia per rappresentare la giustizia. Tra il 1500 e il 1000 a.C. dagli ideogrammi, potenzialmente infiniti, si passa a un alfabeto, cioè all’insieme di simboli finiti che marcano i suoni e non i concetti. Se gli ideogrammi, pur mantenendo un certo legame con l’oggetto da comunicare, sono fortemente metaforici, l’alfabeto non lo è affatto, anzi è approssimativo e convenzionale.

Platone non capì mai che il proprio modo di pensare era dettato dalle strutture mentali che, a loro volta, erano dovute all’alfabeto. Ed è interessante capire come mai per rendere esplicito questo concetto si sia dovuto aspettare fino all’età contemporanea. Nel suo libro più importante, Gli strumenti del comunicare, Marshall McLuhan enuncia la famosa riflessione, sintetizzata, quasi fosse un motto, con la frase “Il medium è il messaggio”. Questo semplice concetto significa cancellare la neutralità del mezzo di comunicazione e capire che non solo il modo in cui si rende noto un pensiero è importante, ma anche che la comunicazione rientra in ogni fase della quotidianità umana e che i mezzi di comunicazione intervengono a modificare il nostro modo di ragionare e di pensare. Ma ancor più interessante è da sottolineare che McLhuan considera l’alfabeto, e di conseguenza la parola scritta, come una tecnologia al pari della stampa, del telefono, della radio e della televisione. Anzi, proprio l’alfabeto sta alla base delle altre tecnologie.

Nel capitolo dedicato alla parola scritta, dal titolo assai significativo La parola scritta. Un occhio per l’orecchio, il sociologo canadese spiega che:

L’alfabeto fonetico è una tecnologia del tutto particolare. Ci sono stati molti tipi di scrittura, pittografica e sillabica, ma praticamente un solo alfabeto (fonetico) nel quale a lettera semanticamente prive di significato corrispondono suoni semanticamente privi di significato. La trascrizione fonetica sacrifica mondi di significato e di percezione presenti in forme come i geroglifici o gli ideogrammi cinesi. Ma queste forme di scrittura, culturalmente più ricche, non potevano favorire l’improvviso passaggio dal mondo magicamente discontinuo e tradizionale della parola tribale al medium visivo, freddo e uniforme. […] Questo fatto non ha nulla a che vedere con il contenuto delle parole alfabetizzate, ma è il risultato della rottura improvvisa tra un’esperienza auditiva e una visiva. Soltanto l’alfabeto fonetico crea una divisione così netta dell’esperienza, dando a chi ne fa uso un occhio in cambio di un orecchio e liberandolo dal trance tribale della parola magica e risonante e dalla rete delle affinità di sangue.

    (McLuhan, 2002: 93-94)

Ed ecco che siamo ritornati alla signora che, per ascoltare meglio il nipote, inforca gli occhiali. Ora possiamo anche dedurre che la nonna è abituata a leggere molto e che quindi ha bisogno di un rapporto visivo con le parole, anche se sono solo dei suoni. Di certo non si può fargliene una colpa, ma neppure si può lodare, si constata che è una donna pienamente inserita nella propria cultura altamente alfabetizzata.

Era elettrica: oralità di ritorno e nuova Torre di Babele #

Quasi sicuramente se il dialogo tra il ragazzo e la nonna proseguisse e l’argomento di conversazione diventasse il computer o più in generale l’era elettronica, la nonna criticherebbe molto aspramente questo modello di comunicazione e avanzerebbe ragioni del tutto simili a quelle usate da Platone per criticare la scrittura: “Non è umano ricreare al di fuori della mente ciò che esiste solo al suo interno”. Oppure “Io sapevo tutti i numeri di telefono a memoria, adesso con il cellulare e il computer nessuno sa nulla a memoria” e altre frasi simili. Generalizzando la nonna obbietterà dicendo che il computer impigrisce la memoria e la capacità di ragionare. Il fatto è che per la nonna è difficile, se non impossibile, pensare che chi avesse iniziato a marciare in questa direzione fosse proprio la scrittura, perché la considera un processo naturale e non pensa che possa essere studiata come una qualunque altra tecnologia. Importante diventa capire allora dove quest’era elettronica ci porterà. Come già specificato precedentemente, Ong parla di culture a oralità secondaria, dove le tecnologie figlie dell’alfabetizzazione (radio, telefono, televisione, computer) riconducono, per alcune caratteristiche, alla dimensione dell’oralità, ma, allo stesso tempo, per motivi tecnici, sono imprescindibili dalla stampa e dalla scrittura. Questa nuova oralità assomiglia a quella più antica per alcuni interessanti motivi:

  • per il senso di appartenenza a una comunità;
  • per l’immediatezza della comunicazione;
  • per l’uso di formule.

Chi ascolta un programma radiofonico o ne guarda uno alla televisione si sente parte di un pubblico di ascoltatori. Ma, a differenza dell’oralità primaria, qui le dimensioni del pubblico sono enormemente più ampie, tanto da generare quello che McLuhan chiama ‘villaggio universale’. In secondo luogo l’uomo a oralità secondaria sceglie autonomamente di essere parte di una comunità, a differenza dell’uomo a oralità primaria che non conosceva alternative. McLuhan ipotizza che:

L’elettricità apra la strada a un’estensione del processo stesso della conoscenza, su scala mondiale e senza alcuna verbalizzazione. È possibile che questo stato di consapevolezza collettiva fosse la condizione dell’uomo preverbale. Ed è possibile che il linguaggio, come tecnologia dell’estensione umana di cui conosciamo così bene i poteri di divisione e di separazione, sia stato la ’torre di Babele’ mediante la quale gli uomini hanno cercato di arrampicarsi nel più alto dei cieli.

    (McLuhan, 2002: 90)

Questo linguaggio comune attraverso il quale si può raggiungere la conoscenza, è un concetto che si sta attuando grazie a Internet. Nel senso che, è vero che nella Rete le informazioni e il sapere sono scritte in lingue diverse, ma è anche vero che l’impostazione è sempre la stessa. I siti, i blog, le pagine personali hanno tutti la stessa finalità, cioè di condividere, su più larga scala possibile, la conoscenza, sia essa individuale o collettiva. Di comune hanno anche la grande ambizione di arrivare al sapere sommo, progetto che, inevitabilmente, è ricco di ambiguità e di strade differenti.

Riguardo poi al racconto della Genesi e del motivo per cui Dio abbia deciso di distruggere la torre, si sono date diverse interpretazioni: una è che gli uomini abbiano commesso un peccato di superbia nel costruire una torre che potesse arrivare a Dio, quindi alla massima conoscenza, e che per questo motivo, lo stesso Dio li abbia puniti, confondendo le lingue e facendoli disperdere. Un’altra interpretazione, positiva, spiega che in realtà Dio li abbia dispersi per completare la sua opera di sviluppo e di annuncio della sua parola sulla terra. Ed è da questa seconda interpretazione che si può pensare a Internet come una nuova Babele, intesa come nuovo tentativo per sintetizzare in un linguaggio – non solo parlato o scritto, ma anche fotografico, video, musicale, televisivo, in una parola multimediale – tutte le conoscenze dell’universalità umana.


Bibliografia #

  • Platone, La settima lettera, Duepunti edizioni, Palermo 2005.
  • W. Ong, Oralità e scrittura, Il Mulino, Bologna 1986.
  • M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore 2002.
  • P. Zumthor, Babele, Il Mulino, Bologna 1998.